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Viaggio

In India, da Darjeeling al Sikkim: itinerario alla scoperta del tè più famoso del mondo

Il fascino coloniale del Darjeeling e le piantagioni sterminate da cui nasce la preziosa bevanda. Oltre, le montagne color smeraldo del Sikkim, antico regno buddhista alle pendici dell’Himalaya. Un viaggio per riscoprire il silenzio e sé stessi

You don’t buy tea, you buy time, dice un proverbio indiano. E che si stia comprando del tempo, e non solo un profumato infuso, in Darjeeling, lo si capisce subito. Basta posare lo sguardo sulle distese color smeraldo delle piantagioni, dove la raccolta si fa rigorosamente a mano. La fretta è bandita in questo eden ai piedi dell’Himalaya, addomesticato dal lavoro dell’uomo, dove nasce il tè più famoso del mondo. Benedetta da un clima mite e salubre, con i suoi duemila metri di altitudine questa regione del Bengala Occidentale somiglia poco al resto dell’India. I templi indù convivono con i monasteri, i volti sorridenti hanno tratti nepalesi e persino il nome Darjeeling deriva da una parola tibetana che significa “terra dei fulmini”.

La Darjeeling Himalayan Railway, il famoso Toy Train tra le piantagioni di tè

Ai tempi della Compagnia delle Indie Orientali era considerata la Saint Moritz dei coloni inglesi, che venivano fin qui per concedersi qualche mese di tregua dall’afa. Le tracce di quel passato sono ovunque. A partire dal Darjeeling Himalayan Railway (scoprila tra i treni più famosi del mondo), l’ottocentesca linea ferroviaria, nata per il commercio del tè e patrimonio dell’umanità Unesco dal 1999. Oggi lo chiamano Toy Train ed è l’attrazione turistica locale, con vagoni di cento anni fa trainati da locomotive a carbone che emettono nuvole di fumo, arrancando sulle rotaie a scartamento ridotto, tra file di bancarelle.

La storia del tè in India

Conservano il fascino coloniale intatto anche i club dei gentleman inglesi convertiti in hotel dal fascino decadente, come The Elgin, con i salotti tappezzati di ritratti della regina britannica Elisabetta e foto degli anni Trenta. Come allora, ci si accomoda accanto ai camini scoppiettanti per l’appuntamento pomeridiano con il più tradizionale dei riti britannici, quello dell’afternoon tea. “Per i coloni inglesi l’approvvigionamento costante di té era una questione fondamentale” spiega Madav Sarda, manager del Golden Tips Tea Boutique, istituzione specializzata in miscele gourmand. “Invece di comprarlo, decisero di provare a coltivarlo. Così importarono di nascosto piante e semi dalla Cina, grazie al contributo del botanico Robert Fortune, esploratore e plant hunter (cacciatore di piante) per conto di sua maestà”. Bastarono pochi anni per scoprire che quello alle falde dell’Himalaya era il terroir perfetto per coltivare una qualità eccezionale di tè nero, che venne presentato al mondo durante una vendita all’asta a Londra, nel 1839.

Marina Spironetti

Darjeeling, la capitale della regione

Come le vallate di tè che la circondano, anche la capitale della regione, Darjeeling, è tutta un dislivello, dove si sale e si scende seguendo un intricato dedalo di strade e scalinate ripide che mettono alla prova i polpacci più allenati. Non esiste un vero e proprio centro, ma per lo shopping si va in Nehru Road, la via pedonale, con le insegne decorate con le icone locali: le foglie del tè e il profilo della montagna più alta del mondo. Negli anni Cinquanta, quando il versante nepalese rimase chiuso, Darjeeling divenne il punto di partenza per le spedizioni sull’Everest che, passando attraverso il Tibet, raggiungevano il versante settentrionale. Per vedere lo spettacolo dei colossi ghiacciati, in meno di un’ora d’auto dal centro si sale a Tiger Hill, partendo in tempo per evitare la folla che ogni giorno si raduna qui già ore prima dell’alba. Nebbia e nuvole offuscano spesso le cime, ma se il cielo è limpido lo spettacolo è memorabile. Al sorgere del sole le montagne si tingono di rosa, mentre la luce illumina una dopo l’altra le vette degli ottomila, dall’impronunciabile Kanchenjunga all’Everest.

In Sikkim: monasteri buddhisti tra le vette

Per avvicinarsi ancora di più al tetto del mondo, bisogna puntare verso nord. Pochi chilometri separano Darjeeling dal Sikkim, l’antico regno buddhista alle pendici dell’Himalaya, incastonato tra Nepal, Tibet, Cina e Bhutan. È un piccolo paradiso naturale, intatto e ancora in parte inesplorato, lontano anni luce dal turismo di massa e dalle rotte battute dai viaggiatori. Sotto le cime innevate, la densa vegetazione tropicale si alterna alle risaie coltivate sui crinali delle colline, sormontate dal profilo aguzzo dei monasteri buddhisti che svettano su ogni cima. “Sono più di 250, di ogni dimensione, tutti attivi”, spiega Kabir Chhetri, guida locale di origine nepalese, come gran parte della popolazione. In Sikkim si entra in punta di piedi, come nei templi. Ai turisti serve un permesso speciale che consente comunque di visitare solo alcune zone, a causa dell’instabilità politica dei confini con la Cina. Eppure l’atmosfera è serena, come il sorriso dei monaci che si incontrano ovunque, tra i banchi del mercato, in coda per una tazza di tè e persino in motocicletta, a cavallo di rombanti Royal Enfield, con la tunica bordeaux svolazzante.

Marina Spironetti

Gangtok, la capitale del Sikkim

Gangtok, la capitale, si sviluppa tutta in salita, aggrappata alla pietra in equilibrio precario. L’altitudine e la lontananza da vie di comunicazioni importanti l’hanno preservata dal caos delle metropoli indiane e, seppure disordinata, è una città tranquilla. Basta mezza giornata per scoprirla: dall’Istituto di tibetologia, uno dei più famosi al mondo, alle mura del Palazzo reale, dalla gigantesca stupa di Do Drul Chorten, ai colori violenti del mercato. Salendo al vicino monastero di Rumtek, il suono costante dei clacson e il brusio della città si attenuano, fino a raggiungere il silenzio rispettoso che avvolge questa importante scuola buddhista tibetana, fondata negli anni Sessanta, poco dopo che i cinesi invasero il vicino Tibet.

Per raggiungere il cuore del Sikkim, dove si trovano i monasteri più importanti, bisogna mettere in conto lunghe ore di viaggio e qualche disagio. Tra buche e strapiombi, si viaggia lentamente (e solo affidandosi a un autista esperto) sulle strade sconnesse che solcano la regione, inerpicandosi tra quelli che, da lontano, sembrano familiari paesaggi alpini. Da vicino si rivelano invece fitte foreste di bambù, banani, tamarindi e rododendri, all’ombra dei quali fioriscono centinaia di specie di orchidee e si aggirano leopardi delle nevi e timidi panda rossi, sempre più rari e difficili da avvistare.

In sottofondo, il frinire delle cicale è una colonna sonora costante, anche quando i fiumi delle valli cedono il posto a torrenti e cascate, dove i fedeli lasciano offerte propiziatorie. Si attraversano passando su ponti di legno scricchiolante, come quello di Kabi, dove pare incredibile che anche le automobili potessero avventurarsi fino a due anni fa, quando venne inaugurato il ponte nuovo, pochi metri più in là. Nel silenzio si sente il fruscio delle bandiere di preghiera che sventolano senza sosta. “Sono messaggi d’amore universale, chiedono di diffondere saggezza, pace e armonia tra tutti gli esseri viventi”, spiega Kabir. “La loro forza è trasportata dal vento: per questo sono collocate in spazi aperti, dove l’aria li spinge più lontano”.

Marina Spironetti

I monasteri di Phudong e Pemayangtse

La strada sterrata si fa sempre più stretta e per arrivare al monastero di Phudong servono nervi saldi, mentre l’auto si aggrappa alle linee verticali del paesaggio. Il primo occidentale a varcarne la soglia fu una donna, la leggendaria viaggiatrice francese Alexandra David-Néel. Era il 1920 e lei, travestita da monaco, attraversò a piedi mezzo mondo, riportando nei suoi diari l’incanto provato di fronte alle “pitture nere” del Sikkim, le misteriose raffigurazioni celate nella parte più segreta di ogni monastero. Solo a Phudong sono accessibili anche ai visitatori e ripagano con la loro misteriosa bellezza la fatica dei pochi turisti che si avventurano fin qui.

Altrettanto suggestivo è Pemayangtse, a 2.200 metri di altezza. Intorno al monastero, l’aria profuma di cardamomo e lunghe file di bandiere di preghiera si muovono nel vento, in contrasto con l’eterna immobilità delle cime circostanti. Costruito nel 1705 dal Lama Latsun Chenpo, conserva dipinti originali e splendidi tanka, antichi disegni su stoffa. Salendo una ripida scala di legno, si entra in una stanza decorata con scene tantriche pudicamente coperte da rettangoli di stoffa. Da qui la vista spazia sulla collina di fronte, dove si scorgono le rovine di Rabdentse, l’antica capitale fiorita attorno al 1670 e abbandonata due secoli fa per fuggire alle armate nepalesi: oggi restano le tracce di tre stupa colossali e mura possenti, inghiottite dalla foresta.

Il tè del Sikkim

La gente del posto dice che “salendo più in alto, le strade peggiorano e il tè migliora”. Fidandosi della saggezza popolare, ci si inerpica verso Pelling dove, con lo sbalzo di altitudine, il paesaggio cambia ancora e le foreste lasciano il posto a colline di un verde acceso in prossimità della Temi Tea Estate, l’unica piantagione di tè del Sikkim. Come da tradizione, la raccolta è affidata alle donne che, con le loro mani delicate, staccano i germogli gettandoli nei doko, le gerle di bambù intrecciato appese sulla schiena con il namlo, una fascia di cotone colorato fissata sulla fronte. Sorridono e si scambiano qualche frase in dialetto nepalese, protette da stivali di gomma e grembiuli ricavati dai teloni dei camion, incuranti del tempo che passa e persino dei cobra che si aggirano tra le piante.

Durante l’anno, le nebbie invernali si alternano alle nuvole di petali rosati nel periodo della fioritura dei ciliegi, lasciando intravedere solo a sprazzi le scintillanti nevi di Khangchendzonga, la terza montagna più alta del mondo. Una calma metafisica avvolge queste vallate, dove il tempo sembra scorrere più lentamente, scandito dalle stagioni delle raccolta in una sequenza di gesti antichi, emblema di un Paese in cui la vita non si vive in anni, giorni e nemmeno in ore. In Sikkim la vita si vive per momenti.

FONTE Chiara Pasqualetti Johnson

Fonte
CORRIERE.IT
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