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274 uccisi, Nuseirat tra cura e disperazione – di Chiara Cruciati

Gaza il giorno dopo l’operazione israeliana, corsa contro il tempo per salvare i feriti. «I militari sono arrivati travestiti da sfollati». Gantz chiede elezioni e si dimette dal gabinetto di guerra. L’ultradestra di Ben Gvir: entriamo noi

«È sembrato di scendere nelle profondità dell’inferno, la guerra tornata alla sua brutalità e intensità mentre il mondo esplodeva nel caos, inghiottito dalle fiamme, i bombardamenti e le bombe. (…) In pochi istanti, centinaia di sfollati hanno iniziato a fuggire in preda al panico dall’ospedale, con i volti segnati dalla paura, vagando senza meta per le strade di Deir el-Balah. In mezzo al caos, grida e urla riempivano l’aria, una domanda collettiva: “Dove andremo a finire?”. Poi abbiamo iniziato a vedere scene di morti e feriti (…) Parti di corpi smembrati di bambini e cadaveri che giacevano lungo la strada percorsa dai carri armati per andarsene. (…) L’aspetto più angosciante di un massacro forse è la sua rappresentazione nei media. Sono circolate immagini di prigionieri israeliani liberati, le dichiarazioni hanno lodato il successo di Israele nel liberare quattro persone – ma che dire delle 274 persone uccise? Siamo solo numeri? Il nostro sangue è così facilmente ignorato? Perché il mondo non ci vede?».

È un estratto del racconto di Maram Humaid, una giornalista di al Jazeera, colta dall’operazione israeliana di sabato mentre era a casa con i figli a Deir al Balah. È stato pubblicato mentre il ministero della salute di Gaza aggiornava il bilancio della carneficina: 274 uccisi e 698 feriti nel campo profughi di Nuseirat. Difficile confermare i numeri. Israele parla di un centinaio di vittime, tra cui molti civili di cui però dice di non poterne indicare quanti. Lo stesso vale per il bilancio totale dal 7 ottobre, le autorità israeliane non danno numeri.

LA GIORNATA di ieri, a Nuseirat, è stata una giornata di cura e disperazione. In un campo irriconoscibile, resta il falso sollievo di un soccorso ai feriti. Molti sono morti, l’ospedale Al Aqsa di Deir al Balah non ha i mezzi per un numero tanto enorme di vittime.

«Alcuni hanno bisogno di amputazioni, ci sono ferite molte gravi», scrive la giornalista Hind Khounday descrivendo il caos di pazienti a terra, che si lamentano nel sangue rappreso. «Il nostro dipartimento di neurochirurgia ha ammesso oltre 20 pazienti con ferite alla testa – racconta il dottor Jamal Salha – Un bambino ferito da una scheggia è senza famiglia, probabilmente sono stati uccisi». Ieri sui media sono comparsi nuovi dettagli dell’operazione che ha portato alla liberazione di quattro ostaggi, Noa Argamani, Andrey Kozlov, Shlomi Ziv e Almog Meir Jan.

Se Tel Aviv nega di aver utilizzato finti camion umanitari per infiltrarsi a Nuseirat, le testimonianze parlano di soldati in abiti civili, camuffati da arabi, uomini e donne, i famigerati mistaravim. Lo conferma il portale israeliano Ynet, secondo cui a operare è stata l’unità che opera in Cisgiordania travestendosi da palestinesi.

Sarebbero partiti da un’area vicino al molo statunitense destinato agli aiuti, sarebbero passati dal corridoio Netzarim per arrivare al campo portando con sé dei materassi, fingendosi sfollati. A chi chiedeva da dove arrivassero, in arabo perfetto si sarebbero detti in fuga da Rafah. Poco dopo sarebbe scattata l’operazione nelle due palazzine dove si trovavano gli ostaggi con il fuoco sparato negli appartamenti vicini: «Ho incontrato l’unità speciale. Sembravano sfollati. Sono saliti per le scale e sono entrati nella mia casa – racconta un testimone ad al Jazeera – È scoppiato il caos, con colpi d’arma da fuoco ed esplosioni. Il mio bimbo di 18 mesi piangeva, mia moglie urlava». Infine, i bombardamenti a tappeto per coprire la fuga. Raid nei quali, dice Hamas, l’esercito israeliano avrebbe ucciso altri ostaggi.

IL GRUPPO parla di tre vittime israeliane, di cui uno con doppia cittadinanza statunitense, e ieri su Telegram ha pubblicato un video dei presunti cadaveri, dal quale però è impossibile distinguerne l’identità. La notizia ha acceso ancora di più gli animi delle famiglie degli ostaggi che continuano a manifestare, insieme a migliaia di israeliani, per chiedere che il premier Netanyahu se ne vada.

Lui va dritto per la sua strada, si fa fotografare con i quattro rilasciati e incassa i colpi. Come quello sferrato ieri da Benny Gantz che, con un ritardo di 24 ore, ieri da Kfar Maccabiah ha annunciato le sue dimissioni dal gabinetto di guerra. L’ultimatum di un mese era stato lanciato un mese fa, con Gantz che chiedeva entro l’8 giugno un piano, una strategia chiara che manca, da mesi, al di là del massacro a fini di sopravvivenza politica.

Il primo ministro – consapevole di perdere la sponda centrista che dava al gabinetto la facciata di moderazione necessaria a non allarmare troppo gli alleati occidentali – non ha nascosto la richiesta di unità e ieri su X ha fatto appello al leader del partito National Unity di non lasciare il gabinetto di guerra, di fatto accusandolo di mettere a rischio l’offensiva.

LO HA FATTO mentre il rivale ricambiava l’accusa: «Netanyahu sa cosa deve fare e deve farlo». Il riferimento è all’accordo con Hamas che Gantz affida a Yoav Gallant, il ministro della difesa, «sii coraggioso»: «Sostengo i principi presentati dal presidente Biden», dice Gantz. Il negoziato, quale che sia, volto a incassare l’ufficioso appoggio statunitense a tentare la spallata al premier: «Dovrebbero esserci elezioni…Sarò parte di un governo di unità nazionale con tutti i partiti centristi».

I sondaggi, al momento, non sono così rassicuranti, Netanyahu tiene. Tiene anche grazie alla sua opposizione feroce a un qualsiasi futuro di autodeterminazione dei palestinesi, condivisa con l’estrema destra, che con il suo peso specifico ha influenzato un primo ministro già di per sé bisognoso della guerra per evitare l’oblio (e probabilmente la prigione). Itamar Ben Gvir, leader di Potere ebraico e ministro della sicurezza nazionale, si è già messo in fila: nel gabinetto ora entro io.

UNA PROMESSA di ulteriore radicalizzazione di un’offensiva che già ora non ha limite alcuno. La conta degli uccisi palestinesi ha ormai superato i 37mila in otto mesi (almeno 10mila i dispersi tra le macerie, mai recuperati), 85mila i feriti.

E ieri, mentre Nuseirat si guardava intorno per non riconoscere più quel che era, gli attacchi israeliani sono proseguiti a Deir al Balah e nel campo profughi di Bureji, i più presi di mira nelle ultime settimane: il centro di Gaza ha visto tornare le truppe di terra, nel tentativo – spiegano gli analisti militari – di puntellare la spaccatura in due della Striscia. Non cessa l’offensiva nemmeno a Rafah, ormai circondata fino alla costa dai carri armati israeliani. Decine i palestinesi uccisi, anche loro nell’oblio.

Fonte
ilmanifesto.it
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