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Miscellanea

Cos’è il quiet quitting: come mollare sul lavoro (ma senza lasciarlo) – di Francesco Giambertone

Abbandonare l’idea di dare sempre di più, di fare sempre meglio, dirottando silenziosamente tempo ed energie verso altro. La pandemia ha prodotto anche questo: la fine di una cultura diffusa, la nostra sinora, che vede nella professione la via principale per il successo e la realizzazione di sé. Di chi è la colpa?

L’onda è partita negli Stati Uniti a inizio anno. Presto è arrivata in Francia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone e da agosto anche in Italia. Ne parlano Youtuber, TikToker e grandi giornali internazionali. Perché il fenomeno sociale è nuovo (o almeno sembra) e riguarda potenzialmente la vita professionale di milioni di persone: lo chiamano quiet quitting, cioè “uscire in silenzio”. Più precisamente: mollare sul lavoro, senza mollare il lavoro. La spiegazione migliore è di Zaid Khan, ingegnere 24enne di New York, in un video di pochi secondi condiviso milioni di volte: «Se aderisci a questa tendenza non lasci davvero il lavoro: semplicemente abbandoni l’idea di dover andare sempre al di là dei tuoi limiti, di dover sempre dare di più. Quindi continui a svolgere i tuoi compiti ma smetti di aderire alla hustle culture»: quella cultura che negli ultimi quindici anni, dagli Usa alla Corea del Sud, ha trasformato il sacrificio estremo sul lavoro nella via principale per il successo e la realizzazione personale.

La verità è che il lavoro non è la tua vita

«La verità è che il lavoro non è la tua vita e il tuo valore come persona non è definito dai tuoi risultati produttivi», riassume Khan su TikTok. E così dai social fino alle pagine del Wall Street Journal si è aperto il dibattito tra chi spiega, chi si preoccupa, chi condanna e chi cerca soluzioni a questa fuga silenziosa.
È la fase due delle Grandi dimissioni, il fenomeno di massa che nel 2021 ha visto 47 milioni di persone lasciare davvero il posto di lavoro negli Stati Uniti, e poi si è allargato al di qua dell’Atlantico . «Molti di quelli che non hanno potuto o voluto fare il grande salto», raccontava lo Youtuber Timothy Ward, tra i primi ad affrontare l’argomento quiet quitting, «ora tirano i remi in barca, esausti o demotivati». Il detonatore è lo stesso: la pandemia. «Lì sono cambiate le priorità esistenziali delle persone», ha raccontato il sociologo Francesco Morace in una puntata del podcast Corriere Daily.

SONO GIA’ 8 MILIONI GLI ITALIANI CHE HANNO LASCIATO IL LAVORO POST PANDEMIA (DATI ISTAT). IL «QUIET QUITTING» È LA FASE NUMERO DUE: NON LASCIARE, MA METTERE DEI PALETTI, EVITANDO STRAORDINARI E INVESTIMENTI EMOTIVI

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(@ i disegni di questa pagina sono di Maurizio Minoggio)

«È stata l’occasione per una riflessione e un ripensamento. In particolare per i più giovani, che oggi non sono più disponibili a fare compromessi e hanno gli strumenti per prendere le distanze da dinamiche di potere sul lavoro che le genera zioni precedenti hanno svuotato di senso». Così ci si licenzia o si riduce l’impegno. Ma quanti sono i quiet quitters? I dati più citati sono di Gallup, società di ricerca che dal 2002 misura lo stato di soddisfazione dei lavoratori nel mondo. Negli ultimi anni i numeri non sono variati granché: solo il 21% dei dipendenti si dice «entusiasta ». Tra chi ha meno di 35 anni, il 51% dei dipendenti al lavoro fa il minimo indispensabile: come tre anni fa. Per questo The Atlantic e altri media parlano di fake trend: una tendenza che non esisterebbe. La fotografia di Gallup però assimila i giovani quiet quitters a chi non ha mai messo la professione al centro della propria vita: la grande fascia di mezzo compresa tra un 31% che si sente molto coinvolto dal proprio lavoro, gli entusiasti (scesi però di 6 punti dal 2019), e un 18% di chi si sente «attivamente disimpegnato», cioè i delusi.

LA CLASSIFICA – GLI ITALIANI SONO IL POPOLO CHE CITA IL LAVORO PIÙ SPESSO (44%) PER RISPONDERE ALLA DOMANDA SU COSA DIA UN SENSO ALLA PROPRIA VITA. EPPURE SU 38 PAESI L’ITALIA È AL VERTICE NELLE CLASSIFICHE SU PREOCCUPAZIONE, STRESS E TRISTEZZA IN UFFICIO E ALL’ULTIMO POSTO IN QUELLA SULLA FACILITÀ CON CUI PENSIAMO DI POTER TROVARE UN NUOVO IMPIEGO
Cresce la categoria dei delusi

In realtà, per diversi esperti è a quest’ultima categoria, in aumento di 6 punti negli ultimi tre anni, che bisogna guardare quando si parla di quiet quitters: quelli che un’ambizione ce l’avevano e l’hanno persa per strada. Perché? Cosa li ha fatti cambiare? Alla base c’è un’insoddisfazione. E in Italia il problema sembra particolarmente serio: sempre per Gallup, gli italiani sono il popolo che cita il lavoro più spesso (44%) per rispondere alla domanda su cosa dia un senso alla loro vita. Ma su 38 Paesi siamo in top ten nelle classifiche su preoccupazione, stress e tristezza in ufficio, e all’ultimo posto in quella sulla facilità con cui pensiamo di poter trovare un nuovo impiego.

NEGLI ULTIMI TRE ANNI, LA CATEGORIA DI LAVORATORI CHE SI DEFINISCONO «DELUSI» E’ CRESCIUTA DI 6 PUNTI PERCENTUALI. SONO QUELLI CHE AVEVANO UN’AMBIZIONE LAVORATIVA CHE POI HANNO PERDUTO (FONTE GALLUP)
«Ma per me rallentare non è servito a niente»

Marta T., trentenne romana, è stata una quiet quitter ante litteram. «Lavoravo per una stilista. Quando ho iniziato ero al settimo cielo: avevo studiato design della moda, l’azienda era piccola e mi ha permesso di crescere velocemente, il ruolo era divertente, tra gestione e viaggi. Però era sottopagato con contratti terrificanti: dopo 3 anni di lavoro è arrivato l’apprendistato, in cui ero inquadrata quasi come una segretaria. In più, il capo era totalmente instabile e umorale. Così, dopo anni di passione, a un certo punto mi sono chiesta: ma chi me lo fa fare? E ho deciso: alle 18 cascava la penna». Per Marta il quiet quitting è stata una reazione momentanea di autodifesa: «Ma non è servito a niente, infatti poi me ne sono andata e ora sono freelance. A me piace ciò che faccio e quello è stato un periodo orribile: alla fine sono sempre 8 ore, ma ti girano dalla mattina alla sera, oppure ti annoi e sei senza stimoli».

«CHI GUIDA I DIPENDENTI DEVE ESSERE IN GRADO DI DARE, O RIDARE, UN SENSO AL LAVORO». RITIRARSI IN SILENZIO NON RENDERÀ FELICI

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La pandemia e i capi non all’altezza

Secondo quasi tutti gli osservatori la responsabilità, più che di dipendenti sfaticati, è di capi non sempre in grado di gestire un mondo del lavoro che la pandemia ha del tutto trasformato. Beatrice Bauer, psicologa e professoressa associata di Leadership, Organization & Human Resources alla scuola di management della Bocconi (la Sda), vede lì il problema: «Il quiet quitting è una scelta cinica, una modalità di sopravvivenza: spesso le persone finiscono abbrutite da uno stile di gestione poco umano e rispondono così. La questione centrale è sempre la motivazione: molte persone che immaginavano delle carriere per sé ora si vedono schiacciate nel presente, nel qui e ora».

EFFETTO STIPENDIO – TRA CHI PENSA DI CAMBIARE LAVORO I SOLDI NON SONO IL PRIMO MOTIVO: LO STIPENDIO PRIMA ERA CITATO NEL 21 PER CENTO DEI CASI, ORA SOLO NEL 14

Stipendi bassi, prospettive limitate, orari faticosissimi, ma per cosa? Sono soprattutto i giovani a chiederselo. «Perché sono molto più attenti alla propria salute e al loro benessere. Un buon leader non dev’essere un bravo attore ma un bravo regista. Bisogna che chi guida dei dipendenti sia in grado di dare, e di ridare, un senso al lavoro che fanno», sostiene Bauer. Ne fa una questione di leadership anche Julian Troian: una vita da consulente delle risorse umane, oggi implementa nuovi metodi di lavoro per la banca Ing in Lussemburgo e insegna management all’Mba dell’Università di Liegi (la Hec): «Con la pandemia e la guerra il mondo è entrato in una fase che l’autore Jamais Cascio ha chiamato “Bani”: un acronimo per Brittle, Anxious, Non-linear, Incomprehensible, cioè sgretolabile, ansioso, non lineare e incomprensibile. In un panorama così fragile, i lavoratori sono entrati in uno stato d’ansia perenne, in cui ci si trincera dietro quello che si conosce, non si prendono rischi, non si fa un passo in più».

I boss di una volta, eravamo abituati male

«E lo stile di leadership a cui eravamo abituati, verticistico, burocratico, abituato a comandare e controllare e non ad ascoltare, è entrato in crisi. Nel lockdown questo sistema ha smesso di funzionare: è come se i capi tentassero di usare un telecomando di una marca diversa». Anche per questo le persone avrebbero perso la «motivazione intrinseca», come la definirono gli psicologi americani Richard Ryan e Edward Deci già nel 1985. La tesi è che per tenerla viva, in classe come sul lavoro, è necessario sentirsi sufficientemente autonomi, competenti e allineati nei valori. «Ma alla maggior parte dei capi non interessa come si sentono i loro collaboratori. Finora il “contratto psicologico” di lavoro era di tipo transazionale: ti pago e non ti devo altro. Oggi non basta più: serve un contratto di lavoro relazionale. Se si creano le condizioni perché le persone si sentano sé stesse, si possono raggiungere risultati straordinari».

IL 14% DEI DIPENDENTI EUROPEI DICE DI SENTIRSI DAVVERO COINVOLTO NELLA PROPRIA ATTIVITÀ LAVORATIVA E SOLO IL 33% SI SENTE APPAGATO (FONTE STATE OF GLOBAL WORKPLACE 2022)

Tra chi pensa di cambiare lavoro i soldi non sono il primo motivo: lo stipendio prima era citato nel 21% dei casi, ora solo nel 14%. «Per quasi tre quarti dei dipendenti» conclude Troian «le ragioni sono invece legate alla cultura e all’ambiente di lavoro: l’assenza di rispetto, le aspettative irrealistiche dei datori di lavoro e le responsabilità, oltre all’equilibrio tra vita e lavoro. Ma anche questo concetto andrebbe superato: il lavoro è un’enorme parte della vita, non possiamo separarli». E ritirarsi in silenzio non renderà felici.

Fonte
corriere.it
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