Non una goccia dell’acqua dell’Egitto deve essere toccata, altrimenti “tutte le opzioni sono possibili”. Il presidente Abdel-Fattah al-Sisi si rivolge agli etiopi appellandoli come “fratelli”, ma l’avvertimento lanciato riguardo il funzionamento della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) è chiaro. L’incontro tra Etiopia, Egitto e Sudan a Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo, attuale presidente di turno dell’Unione africana (Ua), non ha prodotto alcun significativo passo in avanti per arrivare a un accordo tra le parti, immobili nelle loro posizioni. “Le tensioni”, sottolinea ad Huffpost Nicola Pedde, direttore del think tank Institute for Global Studies, “sono aumentate quando il progetto ha iniziato a delinearsi nella portata del bacino idrico, al di là della costruzione in sé”.
La preoccupazione per Khartum e Il Cairo è che la diga sul Nilo azzurro – in costruzione dal 2011 dal costo di 4,5 miliardi dollari, tra le più grandi nel continente con i suoi 1.800 km² e un bacino di 74 miliardi di metri cubi di acqua capaci di generare 6.450 megawatt di energia – possa comportare riflessi negativi per i due Paesi, con una diminuzione consistente del flusso d’acqua. Da parte sua Addis Abeba, che ha annunciato come l’opera sia completa all′80% e la ritiene essenziale per il suo sviluppo, ha accusato le controparti di voler “ostacolare” il processo di mediazione con un “approccio volto a minare” il negoziato portato avanti dall’Ua. Insomma l’Etiopia, che con il 50% della popolazione senza corrente elettrica ad oggi produce meno della metà dell’energia che le garantirebbe la GERD, ne fa una questione di diritto: l’acqua del Nilo non è un “monopolio dei Paesi a valle”, ha sottolineato il ministro degli Esteri, Demeke Mekonnen, durante l’incontro di Kinshasa, ma appartiene “a tutti quelli rivieraschi”.
Diritto contro necessità. Perché alle richiesta etiope risponde, ferma, la pretesa egiziana. Il Nilo, con il 90% del suo approvvigionamento idrico, è una fonte essenziale per l’Egitto, ma non sufficiente a soddisfare i suoi bisogni. Un’eventuale riduzione, quindi, rappresenterebbe un problema enorme. Il panico era stato già scatenato l’estate scorsa, quando il ministro delle Risorse idriche etiope, Seleshi Bekele, era stato citato dall’emittente televisiva Ebc a conferma dell’inizio del riempimento del bacino idroelettrico. La notizia aveva messo in sull’attenti anche il Sudan, che aveva registrato una diminuzione della portata del fiume proprio a poche decine di chilometri dalla GERD, al confine con l’Etiopia, salvo poi risultare un falso allarme. O meglio, un innalzamento dell’acqua c’era effettivamente stato ma non per volontà delle istituzioni etiopi bensì a causa delle forti piogge, che per l’Etiopia rappresentavano un’opportunità enorme da sfruttare e aveva iniziato le operazione di raccolta. Ma il poco preavviso alle controparti e la mancanza di un accordo avevano bloccato il tutto.
Il nodo della questione, molto difficile da sciogliere, è proprio questo. La situazione di stallo che si è delineata è un po’ un cane che si morde la coda. L’Egitto e il Sudan pretendono di avere un piano preciso e ben dettagliato di come avverrà la distribuzione dell’acqua, mentre l’Etiopia, che ha visto respinte molte delle sue proposte, accusa i governi del Cairo e Khartum di perder tempo per ritardare l’avvio della diga ormai pronta. “Gli egiziani esprimono una visione strategica nazionale, da sempre vigili e interessati alla redistribuzione idrica, ma subentrano anche altre questioni politiche di competizione regionale che, soprattutto nel corso degli ultimi due anni, è stato l’elemento più difficile per il dialogo”, spiega il direttor Pedde. Diversa invece è la ragione che muove il Sudan, protagonista di un cambio di casacca. “Storicamente è sempre stato d’accordo con l’Etiopia. Nell’ultimo anno e mezzo, però, ha appoggiato l’Egitto per mere considerazioni politiche”. Una scelta “dettata dalla volontà di abbattere ogni barriera con tutte le istituzioni economiche che possano finanziare il paese”.
L’attenzione del presidente egiziano al-Sisi e del primo ministro sudanese Abdalla Hamdok, adesso, è rivolta al prossimo riempimento della diga, previsto dall’Etiopia a partire da luglio quando le piogge dovrebbero cadere più abbondantemente. Secondo le intenzioni del governo di Addis Abeba guidato da Abiy Ahmed, si dovrebbe passare dai 4,9 miliardi di metri cubi d’acqua dello scorso anno ai 13,5 miliardi. Immediatamente è arrivato lo stop da parte di Egitto e Sudan. Questi fanno infatti affidamento su un accordo stilato nel 1959 con il Regno Unito, da cui venne esclusa l’Etiopia. In base a tale accordo di età coloniale, all’Egitto spettavano 55,5 miliardi di metri cubi di acqua mentre al Sudan 18,5 miliardi. A più di sessant’anni dalle firme, Il Cairo continua a rivendicare la spartizione ignorando il resto dei Paesi bagnati dal Nilo – e non sono pochi: oltre ai già citati Egitto, Sudan (diviso da dieci anni) ed Etiopia, il fiume scorre anche in Burundi, Ruanda, Tanzania, Uganda, Eritrea e Kenya – che beneficerebbero di maggior abbondanza di pioggia. Una considerazione che, però, rischia di essere miope se non si tiene conto delle trasformazioni di questi sei decenni, specialmente in tema ambientale, con un clima sempre più secco, arido, dove le piogge anche nei luoghi in cui solitamente erano precipitose sono oggi una rarità.
Così come “aridi” sono stati considerati fino ad ora i negoziati. La volontà di Egitto e Sudan di allargare la questione anche a Stati Uniti, Onu, Unione europea e Banca Mondiale – quest’ultima di grande interesse per Khartum – è stata bocciata fermamente da parte dell’Etiopia, che intende trovare una soluzione all’interno dell’Unione africana senza coinvolgere altri protagonisti. “L’allargamento a più parti”, secondo l’analisi di Pedde, ”è una presa in giro” dal punto di vista etiope, che la considera più “in un’ottica di sabotaggio. Hanno offerto molte finestre di opportunità per la creazione di un tavolo di lavoro, sistematicamente rifiutate. L’elemento della diga è quasi pretestuoso per gli interessi egiziani, ma la mancanza di un accordo che sia in grado di gestire la distribuzione potrebbe essere un rischio molto forte per il futuro dell’area”.
Il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, in “pieno coordinamento e unità di posizione con il Sudan”, ha informato le Nazioni Unite e il Consiglio di sicurezza dello stallo che si è venuto a creare e che potrebbe “portare a tensioni e destabilizzi ulteriormente l’Africa orientale e il Corno d’Africa”. Proprio per scongiurare questo scenario, definito dalla maggior parte degli analisti come difficile ma non utopico, la richiesta rivolta alle istituzioni internazionali è di “assumersi le proprie responsabilità” in quanto la situazione “non pregiudica solo Egitto e Sudan, ma anche la pace e la sicurezza internazionali”. Al rifiuto di Addis Abeba di coinvolgere autorità terze è seguita sì la volontà di ascoltare proposte differenti, ma anche l’accusa di “intransigenza” di un’Etiopia che pretende di imporre la sua posizione. Lo scorso 30 giugno, il Consiglio di sicurezza dell’Onu invitò i tre paesi africani a raggiungere un accordo e ad evitare azioni unilaterali: un suggerimento attualmente lasciato cadere nel vuoto.
“L’avvicinamento del Sudan all’Egitto ha comportato l’adozione di misure di ostracismo nei confronti dell’Etiopia”. Anche di stampo militare: specialmente nell’area dell’Al Fashaga, alla frontiera con il Sudan, dove due accordi riconoscono alle componenti etiopiche il diritto di produrre beni agricoli con un sistema di tassazione a loro vantaggio. Anche se “l’Etiopia ha denunciato uno sconfinamento da parte sudanese”, ma ”è difficile da stabilire”. Così come Addis Abeba ha ricondotto una serie di esercitazioni condotte dall’Egitto, con l’intento di difendere una grande infrastruttura, come un’operazione sulla GERD. Una questione, quella della diga, “veramente pericolosa” come l’ha definita lo scorso ottobre l’ancora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Non curante (forse) del peso delle parole utilizzate, il tycoon aveva non solo ribadito l’alleanza con l’Egitto ma, rivolto a un gruppo di giornalisti, aveva dichiarato come il governo di al Sisi “non sarà in grado di vivere così…finirà che loro faranno saltare in aria la diga”. Un’affermazione infelice, come la definisce Pedde, che ha avuto l’unico risultato di alzare ancor di più la tensione tra le parti, con l’Etiopia che impose una no-fly zone nell’area circostante all’infrastruttura. In tutto questo, poi, va inserita la crisi interna che l’Etiopia ha vissuto con il Tigrai “e i rapporti con il Sudan che questa ha comportato. Il più evidente nella regione dei Gumus, dove le rivendicazioni delle terre sono sfociate in aperta violenza che il governo etiopico ha negato a livello interno, sostenendo come fossero mere provocazioni egiziane e sudanesi. È probabile che ci siano state attività sudanesi extra regionali, ma che queste si siano trasformate in una rivolta la vedo difficile”, analizza il direttore dell’Institute for Global Studies. Nonostante i richiami dell’ultimo periodo, però, “non credo che ci sia la possibilità di uno scontro militare”.
Il 15 aprile il primo ministro sudanese aveva richiamato le parti, specie quella etiope, per trovare una soluzione in grado di smuovere l’empasse in cui si sono impantanati. Soluzione che, dalle sue parole, scongiura conseguenze militari. Anche la politica egiziana ”è molto più aggressiva in termini vocali” che pratici. “Abbaia ma non morde: non credo si possa concedere il lusso di condurre una guerra a 6/7mila km di distanza. Ammesso anche che ne abbiano la capacità economica”. Un risvolto, quello di uno scontro, men che meno auspicato dall’Etiopia che, dalle parole del ministro Bekele, non vede “alcuna necessità di entrare in una guerra inutile”.
Se è vero che una dimostrazione bellica non rientra tra le priorità di nessun Paese in questione, è allo stesso modo innegabile come non trovare un accordo – o peggio, iniziare il riempimento della diga senza una chiara, nonché comunemente decisa, distribuzione delle quote idriche – provocherebbe dei disagi enormi. E, soprattutto, a giocare un ruolo di primo piano è il sentimento nazionalista attorno all’acqua. Per l’Egitto di al Sisi, il Nilo è una questione “di vita o di morte”: vanno letti come una tutela preventiva, quindi, il tour africano del ministro degli Esteri per informare i vari leader sugli sviluppo della GERD e l’accordo di partenariato siglato con l’intelligence dell’Uganda – dove scorre il Nilo bianco che si ricongiunge con il Nilo azzurro in Sudan – in chiave anti etiope. Quest’ultima, invece, continua a chiedere il rispetto di quella che è la “diga per gli etiopi dagli etiopi”. Il motto, riportato sul Middle East Monitor, così come la parola “Rinascimento” nel nome della grande opera, lasciano chiaramente intendere come qualsiasi interferenza non sia gradita al popolo etiope, che ha garantito la maggior parte dei fondi per la costruzione, specie da chi per decenni ha utilizzato il fiume come un suo strumento personale.
“Temo che sia difficile che l’Etiopia faccia un passo avanti prima delle elezioni che si terranno a inizio giugno se si considera che molta della dura retorica che vediamo sul tema è dovuta proprio ad un uso domestico, volto a compiacere gruppi ultranazionalisti che costituiscono una buona parte della base di potere del primo ministro Abiy Ahmed Ali”, commenta ad Huffpost Tiziana Corda, ricercatrice del NASP (Network for the Advancement of Social and Political Studies) all’Università di Milano. “Sarà però interessante seguire ciò che accadrà subito dopo, nelle poche settimane che restano prima dell’inizio della stagione delle piogge, a luglio, e le annunciate operazioni della seconda fase di riempimento della diga. Una volta vinte le elezioni – molto probabile, vista l’assenza delle principali opposizioni – Abiy può ritenere di aver acquisito quella legittimazione elettorale che ad oggi gli è mancata”. Il suo mandato, infatti, non è una il risultato del voto popolare ma la diretta conseguenza delle dimissioni del suo predecessore Hailé Mariàm Desalegn, in seguito alle proteste scoppiate nel Paese nel 2018. Una volta acquisita maggiore sicurezza politica, il primo ministro potrebbe essere maggiormente disposto a prendere aprire a scenari sulla diga fino ad oggi respinti.
“L’Etiopia si è infatti rifiutata di accettare mediatori esterni proposti da Egitto e Sudan”, continua la dottoressa Corda, “insistendo sulla soluzione interna dell’Unione Africana. Aprire su questo fronte, penso soprattutto se i mediatori scelti dovessero essere gli Emirati che hanno buone relazioni con tutti e tre i paesi coinvolti, non solo non lederebbe in alcun modo l’interesse della popolazione etiope perché non si tratterebbe ancora di rinunciare ad alcunché, ma diventerebbe cruciale nel facilitare un graduale allontanamento dalle posizioni più oltranziste”.
Certo, esiste anche l’altro lato della medaglia. “Qualora le elezioni dovessero essere seguite da contestazioni violente nei confronti di Abiy e del suo Prosperity Party, è più probabile aspettarsi un’attenzione maggiore sul fronte domestico con scarsa possibilità di aperture sui negoziati internazionali”. Lo scenario peggiore si lega, invece, allo futuro più prossimo della “regione del Benishangul-Gumuz dove è collocata la diga. Proprio in questi giorni è stato rivelato che alcune zone della regione sono sotto il completo controllo di gruppi ribelli. Se la situazione dovesse peggiorare e mettere a repentaglio il completamento della costruzione della diga, bloccando i lavori in corso, c’è da aspettarsi la chiusura totale dei negoziati, non solo per concentrarsi sull’instabilità interna ma anche per rimarcare la sovranità/autorità dell’Etiopia, che non si piega ad alcun tipo di minaccia, che siano le parole del Cairo o le azioni di gruppi ribelli in loco”.
Alle diatribe politiche devono inevitabilmente seguire anche altri tipi di problemi. L’effetto dei cambiamenti climatici sta avendo risvolti devastanti sull’intero continente africano, con siccità da record nel Corno d’Africa (secondo la Fao è una delle regioni con il più alto livello di insicurezza alimentare, con oltre il 40% della sua popolazione denutrita), in particolare in Etiopia, Kenya e Somalia. Conseguenza diretta sono le crescenti tensioni che possono facilmente sfociare in conflitti per la sopravvivenza. Paradossalmente però, proprio dalle crisi ambientali può venire quella mano che non ti aspetti per superare lo stallo in cui si trovano Etiopia, Egitto e Sudan, con una gestione idrica equa e condivisa, stabilita in base alla necessità. Una soluzione che è stata già suggerita in altre circostanze, su altri fronti, ma che troverà poco spazio di manovra fino a quando anche “una singola goccia” di acqua continuerà ad essere sinonimo di guerra.
FONTE LORENZO SANTUCCI huffingtonpost.it
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