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Miscellanea

Terremoto, una lezione da non dimenticare mai

Era di domenica, il 23 novembre 1980, alle 19.34..

Stava per concludersi il primo anno del nuovo decennio, la radio, tra le canzoni dei Pink Floyd e Lucio Battisti, portava le notizie di Ustica, della strage di Bologna ma anche delle Olimpiadi estive di Mosca. Era di domenica, il 23 Novembre 1980, nel tardo pomeriggio. Faceva caldo e l’afa si mischiava al colore terso del cielo facendoci conoscere, a nostra insaputa, dei segnali naturali di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Sensazioni che dopo quel giorno nessuno di noi avrebbe mai più dimenticato ma che anzi, vengono riportate alla mente in ogni giorno di afa d’autunno, in ogni giornata dal cielo terso, in ogni 23 Novembre.

Era di domenica, il 23 Novembre 1980, alle 19.34. La terra tremò, e i destini di tutti noi cambiarono, unendosi in un ricordo condiviso, quello di 90 interminabili secondi. Capita così negli episodi storici segnanti: ricordiamo sempre cosa stavamo facendo, con chi eravamo e dove. Vedemmo palazzi accartocciarsi, campanili accasciarsi, orologi fermarsi. Un boato, il fumo grigio, il caos, il rumore del silenzio. Solo dopo giorni saremmo venuti a conoscenza che tutto questo aveva colpito una zona di quasi 20.000 chilometri causando migliaia di morti e centinaia di sfollati. Nelle ore successive i soccorsi tardarono ad arrivare e si fece ricorso all’eroismo dei superstiti che, a mani nude e pale, scavarono alla ricerca di vite umane da salvare. “Fate Presto”, fu l’appello indimenticabile rivolto a tutta Italia per soccorrere i paesi e le città sepolte, diventati inconsapevoli cimiteri per i loro abitanti. Sappiamo tutti ormai che in questi eventi catastrofici le prime ore sono quelle più importanti. Eppure tutto sembrava essere paralizzato da una incapacità di coordinamento e di azione.

Un’amara lezione che mise in evidenza la necessità di realizzare una struttura governativa preposta e da cui poi, di lì a pochi mesi, nascerà quella che oggi è la Protezione Civile. Indimenticabile, per chi viveva e vive all’interno del “cratere”, fu il discorso a reti unificate del Presidente della Repubblica Sandro Pertini che dopo una visita nei comuni colpiti, invitò coni soliti toni schietti e diretti, agitando nervosamente la sua pipa tra le mani, la politica ad agire affinché quelle popolazioni fossero aiutate immediatamente.
Le strade deserte ed al tentativo di ricongiungersi ai propri cari delle ore successive si aggiunse un senso di confusione, spaesamento ed immensa tristezza. L’attesa di notizie per sapere in quanti non ce l’hanno fatta e quanti, invece, sono sopravvissuti ad un infausto destino. Quel sentimento di speranza, che ci faceva dire a voce alta che tutto sarebbe andato per il meglio.

Nei giorni che seguirono si rese sempre più evidente che la vasta area colpita dal sisma, estesa quanto l’intero Belgio, andava ricostruita. Fu messo in piedi un imponente impianto legislativo ed ingenti risorse arrivarono. Eppure ad aspettarli ci fu una classe dirigente non sempre consapevole della sfida reale all’orizzonte: ridare dignità ad una popolazione e ricostruire, mattone per mattone, il futuro di un territorio. La burocrazia, il malaffare e la camorra divennero “politica” mettendo le mani sui fondi e dando spesso ad una spartizione interpartitica che falciò intere classi dirigenti (Marcello Torre fu vittima eccellente).

Ci furono uomini che si piegarono consapevolmente alla falsa ricostruzione di chi venne dal Nord, prese il bottino dei fondi per la propria industria, aprì, fallì e scappò, lasciando qui solo un quadro desolante. Ma ci furono anche immensamente produttivi e mai premiati amministratori locali che ricostruirono partendo dal punto che, in quelle ore, rappresentò l’infausto muro che impediva ai soccorsi di raggiungere i paesi colpiti: le strade. Quella grande arteria che oggi collega Oliveto alle vie interne del Salernitano e all’Irpinia sembra quasi voler chiedere scusa a chi, in quelle prime ore di quarant’anni fa, non poté essere raggiunto attraverso quelle strade sconosciute alle carte geografiche militari.

Dopo quarant’anni siamo qui. Le strade deserte ed un nuovo rumore del silenzio. Famiglie divise da un’Italia delle differenti opportunità si sono riunite durante 90 secondi che durano mesi, con un nuovo pericolo che non puoi vedere e da cui non puoi difenderti. La confusione, lo spaesamento, la tristezza. E poi i numeri, le percentuali, le statistiche. Dopo quarant’anni siamo qui, e forse questo 23 Novembre 2020, oltre il ricordo può portarci la consapevolezza di fragilità naturali, umane, politiche con una sempre presente, e forse mai sopita, speranza di essere migliori, puri d’intenti verso ciò che si governa e lungimiranti rispetto a ciò che si pianifica per il futuro di chi è amministrato.

Oggi più che mai dovremmo guardare al nemico invisibile che attacca nella pandemia e che consente alla criminalità di operare su due fronti: la gestione dei fondi e le economie sofferenti. Fate presto è un appello attuale ancora oggi. Se si arriverà tardi non sarà solo un’offesa ai morti di Covid ma anche un violento scossone a quel che resta del mondo produttivo, in un’epoca dove la camorra non spara più ma mette nero su bianco i suoi affari con impensabili strumenti professionali che mascherano illegalità.

In quel 1980 Pietro Mennea regalò a tutti noi il sogno di una rivincita, di una rimonta possibile verso il sogno di chi si adopera per raggiungere un obiettivo e, non con il talento e la fortuna ma solo con l’impegno e la determinazione riesce a farlo. Dopo quarant’anni, oggi, noi siamo ancora qui, ad aspettare il nostro scatto al traguardo, in un’epoca che non ci ha ancora riscattati dopo sfide vinte a metà, come la ricostruzione. Noi siamo ancora qui, in attesa che l’ultimo miglio arrivi, a riscattare uomini, vittime e storie, ingiustamente offese da quarant’anni di ruberie e malaffare.

Dopo quarant’anni, oggi, nessuno potrà dire “io non sapevo” come nessuno dovrà chiudere gli occhi dinanzi al nemico di un’emergenza che agita di nuovo lo spettro dell’illegalità dinanzi all’inadeguatezza degli uomini. Chissà forse aveva ragione chi sosteneva che il Mezzogiorno, quasi sempre ripiegato sulla sua lamentazione, è ancora in attesa di quei 100 uomini di ferro.

FONTE ANTONIO MANZO LACITTADISALERNO.IT

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LACITTADISALERNO.IT
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