Il più perverso è 45, cioè i giorni della custodia cautelare prolungata ieri per l’ennesima volta. Il più straziante è 30, che sono gli anni che Patrick Zaki compirà in carcere — dormendo per terra in una cella di Tora, prigione il cui nome significa violenze e abusi. Il più offensivo, anche per tutti noi, è «quasi 500». Meglio «quasi 500», invece di contare, perché viene troppa rabbia a sfogliare il calendario per scoprire quante sere il ragazzo egiziano che studiava a Bologna non abbia visto tramontare il sole.
Il 7 febbraio 2020 è stato arrestato con accuse pretestuose: accuse che dittature come quella di Al Sisi usano come un’arma micidiale di distruzione delle persone. Un post su internet (sempre che sia vero) diventa un incitamento a «rovesciare il regime». Storie vecchie come l’inferno.
È vero che «i vicini di casa uno non se li sceglie», come ripeteva sempre, pragmaticamente, un navigatore astuto del Mediterraneo come Giulio Andreotti. Ma se parli troppo piano, nessuno di loro ti sente.
Sembra impossibile che non si sia ancora trovato il modo di convincere la leadership egiziana a rendere conto del proprio operato e ad avere un po’ di rispetto umano per un giovane che vuole bene all’Italia e a cui l’Italia vuole bene.
Perché la mozione del Parlamento sulla concessione della cittadinanza (provvedimento che potrebbe aiutare) è rimasta in un cassetto di Palazzo Chigi? Siamo stanchi di domande, è venuto il momento delle risposte.